Assenza di traffico. Il viaggio dall'ospedale a casa è tranquillo, quasi veloce. Francesca parcheggia davanti al mio garage, esce rapidamente, apre la portiera e mi porge il braccio, scendo, resto in piedi, mantengo una certa stabilità, procedo con calma. Prende la mia borsa dal bagagliaio e mi porge le chiavi, entriamo nel portone e saliamo sull'ascensore. Nelle narici l'odore di casa, di normalità. Arriviamo sul pianerottolo, sulla porta la targhetta col mio nome luccica. Infilo nella toppa il chiavistello grande, poi la chiave più piccola. Gesti automatici, naturali. La casa è in ordine, non ricordo come l'ho lasciata il giorno del ricovero. Osservo lo svuotatasche sulla consolle in ingresso. Lo specchio, impietoso, rimanda l'immagine a lungo evitata. Pensavo peggio. Non sono un fiore però non sembro neanche una naufraga. Mi accomodo nel mio soggiorno, riprendo confidenza con le mie cose e penso a quanto tempo mi ha rubato questa malattia, le cose che ho perso, che ho dovuto lasciare andare, le persone che non sono riuscita a trattenere. Un pensiero mi offusca la vista. Marco. Ho voglia di chiamarlo, sentire la sua voce. Dopo più di un anno. Non so come tornare indietro, recuperare i pezzi, il filo del discorso. Come se fosse andato tutto avanti e io mi fossi fermata. Congelata. Bloccata nel tempo. Siamo entrate a casa da pochi minuti e squilla già il citofono poi il campanello. Sono Davide e Claudia, i miei genitori e la dirimpettaia, la signora Cervetto, che porge un piatto con una torta di mele e mi abbraccia contenta di rivedermi. La casa è affollata. Avrei voglia di sistemarmi a letto e dormire i prossimi tre mesi, o almeno fino a che mi verrà un'idea geniale per risolvere i problemi che si sono sviluppati intorno alla malattia. Sulla segreteria telefonica diversi messaggi, Francesca indica tre cassette da ascoltare. Accendo il pc, digito la password senza pensarci, un centinaio di mail, colleghi e amici, negli oggetti realizzo che qualcuno è offeso per la mancanza di risposte in tempo reale. Claudia sorride, dice che leggerle tutte mi aiuterà a passare il tempo. Davide mi prende per mano, lo seguo in camera. Tira fuori dalla borsa l'album. Ho paura di aprirlo, anche se sento che tra quelle immagini ci sarà la risposta che cerco. Apro e la prima foto ritrae una coppia di ragazzi abbracciati, sorridono felici con due t-shirt uguali, gialle, con lo stemma della nazionale brasiliana. Una sono io, in tempi migliori. Lui è il medico figo che ho sognato.
E' un segno...
CONTINUA
riproduzione vietata®
mercoledì 21 luglio 2010
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Ah... Sti medici fighi... ma come dobbiamo fare con questo immaginario collettivo? :D
RispondiEliminaBellissimo...
RispondiEliminaZio bonnnnnnnn maro.... ma come va avantiiiii????
RispondiElimina